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WELBY: RIFIUTO DI CURE O EUTANASIA? (parte I)

del Prof. Paolo Becchi - Università di Genova


"le juge qui refusera de juger, sous prétexte du silence, de l'obscurité ou de l'insuffisance de la loi, poutra être poursuivi comme coupable de déni de justice" (art. 4 Code Napoléon)


La triste vicenda di Piergiorgio Welby comincia male e si conclude altrettanto male, ma è particolarmente interessante sotto il profilo etico e giuridico per tutti i temi e i problemi che ha coinvolto. Comincia male, perché la lettera aperta scritta da Welby e indirizzata al Presidente della Repubblica ha una chiara finalità politica che trascende palesemente la specificità del suo caso personale. L'appello al Presidente della Repubblica non riguarda il rispetto della libertà di rifiutare le cure, che come vedremo è l'oggetto intorno al quale ruota l'intera vicenda, bensì la richiesta di aprire in Parlamento una discussione in vista dell'approvazione di una legge favorevole all'eutanasia. Si conclude altrettanto male perché il provvedimento del Tribunale di Roma con il quale è stata dichiarata l'inammissibilità del ricorso presentato da Piergiorgio Welby rappresenta un caso ai limiti della denegata giustizia. La vicenda, insomma, comincia male perché Welby (e soprattutto chi politicamente gli stava al fianco) voleva usare strumentalmente la propria situazione personale per convincere il legislatore italiano a orientarsi verso una legge sull'eutanasia del tipo di quella olandese o belga, come egli stesso afferma nella lettera: "Il mio sogno, anche come co-Presidente dell'Associazione che porta il nome di Luca [Coscioni], la mia volontà, la mia richiesta, che voglio porre in ogni sede, a partire da quelle politiche e giudiziarie, è oggi nella mia mente più chiaro e preciso che mai: poter ottenere l'eutanasia. Vorrei che anche ai cittadini italiani sia data la stessa opportunità che è concessa ai cittadini svizzeri, belgi, olandesi" (lettera del 22 settembre 2006). Non è corretto il riferimento alla Svizzera, perché in Svizzera non c'è una legge sull'eutanasia (anche se sulla base dell'art. 115 del codice penale è di fatto tollerato l'aiuto al suicidio). Ma su questo possiamo qui sorvolare. Beninteso, nessuno contesta che Welby potesse battersi per l'eutanasia, come i suoi compagni del partito radicale, e lottare per questo anche facendo uso del proprio corpo, come ha fatto, ma la sua vicenda personale poteva molto più facilmente concludersi (e così, a quanto pare, è stato) senza tirare in ballo l'eutanasia. A dimostrazione del fatto che casi di fine-vita di per sé estremi (come estremo era quello di specie) possono trovare una soluzione bypassando il problema dell'eutanasia. Ma la vicenda comincia male anche per un'altra ragione e cioè perché Welby pare connettere il suo caso a quello dell'accanimento terapeutico quando scrive: "ciò che mi è rimasto non è più vita - è solo un testardo ed insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche" (lettera del 22 settembre 2006). Vedremo meglio in seguito come proprio l'insistere sul concetto di "accanimento" sia in realtà inadeguato per affrontare il caso di specie. Ma già sin d'ora dobbiamo almeno rilevare una cosa. Proprio il mantenimento delle funzioni biologiche consentiva a Welby di avere una vita che per lui ora poteva pure non essere più vita, ma che obiettivamente era ancora vita e per nulla ridotta alle mere funzioni biologiche, dal momento che non solo egli era pienamente consapevole della situazione in cui si trovava, ma deciso a mettervi fine. La vita è fatta anche di eventi negativi, la donna che ti lascia, l'amico che ti delude - come scrive Welby - ma è fatta anche di persone che, come lui, hanno deciso di farla finita. Perché Welby chiede di essere aiutato a morire? Molto spesso fra coloro che si oppongono all'eutanasia si obietta che essa nascerebbe dall'abbandono in cui di solito vengono lasciati i malati terminali; ma proprio il caso in esame dimostra il limite di un tale approccio: Welby vuole morire, chiede esplicitamente che si metta fine alla sua vita anche se è assistito da un medico che fa parte di un associazione che da tempo si batte per il rispetto del diritto dei malati terminali, dagli affetti famigliari di una moglie e di un nipote che gli stanno vicino e dalla solidarietà dei suoi compagni di partito (questa è perlomeno l'immagine che pubblicamente è trapelata). La cosa più sorprendente è che Welby in questa lettera non dice che vuole morire perché vuole difendere la sua dignità, ma perché ritiene la morte come la scelta opportuna nella sua condizione: "La morte non può essere "dignitosa"; dignitosa, ovvero decorosa, dovrebbe essere la vita, in special modo quando si va affievolendo a causa della vecchiaia o delle malattie incurabili e inguaribili. La morte è altro. Definire la morte per eutanasia "dignitosa" è un modo di negare la tragicità del morire. E' un continuare a muoversi nel solco dell'occultamento o del travisamento della morte che, scacciata dalle case, nascosta da un paravento negli ospedali, negletta nella solitudine dei gerontocomi, appare essere ciò che non è. Cos'è la morte? La morte è una condizione indispensabile per la vita". Una riflessione sulla morte ci potrebbe bene al di là degli obiettivi limitati di questo scritto. Vorrei tuttavia osservare una cosa. Nell'attuale dibattito sull'eutanasia tanto coloro che la auspicano, quanto coloro che la osteggiano spesso utilizzano proprio l'argomento delle dignità per sostenere la loro posizione. Si combatte l'eutanasia perché offenderebbe - come ribadito da papa Benedetto XVI (il riferimento si trova nella stessa lettera di Welby) - "la dignità inviolabile della vita umana dal concepimento al suo termine naturale". Sappiamo peraltro che la Chiesa non è al riguardo molto coerente, poiché accetta il prelievo degli organi da persone che si trovano in stato di morte cerebrale e questo stato non si identifica con il termine naturale della vita. Oppure si sostiene l'eutanasia per evitare una morte umiliante e degradante, come è quella di un malato terminale che vede progressivamente venir meno tutto ciò che fa sì che la vita valga comunque la pena di essere vissuta. Ebbene, Welby sembrerebbe qui suggerire una via diversa. Sorprende pertanto un po' quando nel ricorso presentato il I° dicembre nei confronti dell'Antea, l'Associazione che fornisce assistenza gratuita ai malati terminali e del dottor Giuseppe Canale, oncologo, specialista in cure palliative che da anni seguiva Welby, il ricorrente abbia chiesto la somministrazione di terapie sedative, in modo che sia all'atto del distacco dal respiratore che successivamente venga garantito "il massimo rispetto delle condizioni di dignità e di sopportabilità del suo stato". Il tema della dignità che nella lettera al Presidente sembrava tutto sommato essere un'argomentazione non condivisa da Welby e lasciata a coloro che si oppongono all'eutanasia (ritorna in senso positivo solo nel passo citato di Sua Santità, Benedetto XVI), viene qui invece avanzato come una delle modalità da rispettare nella procedura che dovrà consentire il distacco dal respiratore. Come vedremo la dignità svolgerà un ruolo in tutto il dibattito successivo, qui è però importante registrare un altro decisivo mutamento di orientamento rispetto alla posizione iniziale. Nella lettera aperta al Presidente della Repubblica Welby chiedeva espressamente per sé e per tutti i malati terminali che lo volessero una legge che autorizzasse l'intervento eutanasico. Nel ricorso invece la richiesta è mutata, la parola "eutanasia" non compare neppure e, neppure si fa riferimento al problema dell' "accanimento terapeutico". Ciò che con il ricorso è stato richiesto è l'interruzione di un trattamento effettuato con modalità che siano tali da non procurare inutili sofferenze al paziente. Prima di analizzare il ricorso è tuttavia opportuno chiedersi perché si è giunti ad esso. Ora, è evidente che nessun medico in Italia avrebbe potuto soddisfare la richiesta eutanasica formulata da Welby nella sua lettera al Presidente senza andare incontro a grossi problemi con la giustizia e con l'Ordine dei Medici, ma Welby, già in data 24 novembre 2006, non aveva richiesto per iscritto al suo medico curante (come invece aveva fatto nella lettera al Presidente della Repubblica) un atto eutanasico. Con volontà chiaramente ed univocamente espressa, Welby si era limitato a chiedere al medico che lo aveva in cura di sospendere il trattamento di ventilazione artificiale con modalità atte a non procurargli dolore e dunque sotto sedazione. Nello stesso giorno il medico ha opposto rifiuto. Il rifiuto era di per sé lesivo del diritto all'autodeterminazione del paziente, nonché contrario ai doveri deontologici del medico, poiché tanto il nostro ordinamento quanto il codice deontologico medico escludono, nella situazione data, la possibilità di un trattamento sanitario effettuato contro la volontà del paziente. Il medico curante tuttavia aveva osservato che, quand'anche fosse obbligato a rispettare la volontà del paziente e dunque a staccare il ventilatore sotto sedazione, egli aveva altresì l'obbligo di riattaccarlo una volta che il paziente sedato e incosciente non fosse più in grado di ribadire la sua decisione, dal momento che scollegato dalla macchina il paziente era in pericolo di vita e compito del medico era quello di scongiurare tale pericolo. Un'argomentazione difficilmente sostenibile, dal momento che il pericolo di vita non comporta che non si debba rispettare la volontà del paziente (anche quando ciò implichi un serio rischio per la vita del paziente), come è ammesso tanto dalla costituzione, quanto dal codice deontologico medico. Senza qui richiamare tutti i casi di testimoni di Geova che per motivi religiosi rifiutano (anche a rischio della vita) le trasfusioni di sangue; è sufficiente ricordare quello esemplare, passato alle cronache, (cfr., ad esempio "Corriere della Sera ", 19 febbraio 2004) della donna che, nel pieno possesso delle sue facoltà mentali, ha rifiutato l'amputazione di un piede in cancrena, perché riteneva inaccettabile una tale menomazione e per questo è morta. Welby è un malato che ha chiesto di non essere più sottoposto ad un trattamento e non c'è alcuna ragione per sostenere che quel trattamento debba essere ristabilito, una volta che il malato abbia perso coscienza. Welby, certo, non più cosciente non è più in grado di decidere, ma ha anticipato per iscritto le sue decisioni (tra l'altro a pochissima distanza di tempo da quando si sarebbe dovuto verificare l'evento) ed è di questo che si deve tener conto. Del resto, se dovessimo seguire l'argomentazione del medico curante non sarebbe possibile nessun intervento chirurgico sotto anestesia, dal momento che sotto anestesia nessun paziente è in grado di ribadire la propria volontà. Non sussisteva dunque alcun obbligo da parte del medico curante di ripristinare la respirazione assistita. La richiesta di Welby poteva essere accettata dal medico, poiché era conforme all'ordinamento e rientrava nell'ambito della sua etica professionale. Il ricorso era pertanto del tutto motivato. Viene tuttavia da chiedersi se era proprio necessario seguire questa strada. Qualsiasi paziente può cambiare medico (e strutture ospedaliere) quando vuole e non si vede per quale ragione Welby sentendosi - come dire - tradito dal suo medico curante non si sia rivolto ad un altro medico che venisse incontro alla sua richiesta (come poi, alla fine, ha effettivamente fatto). Prima di effettuare il ricorso almeno un tentativo lo poteva fare, ma evidente l'uso politico strumentale della vicenda spingeva in altra direzione. In attesa dei tempi lunghi della politica (una discussione parlamentare sull'eutanasia e una legge al riguardo oggi in Italia non sembra un'ipotesi realisticamente praticabile) una decisione della magistratura, ovviamente se favorevole, avrebbe costituito non solo un precedente ma un forte stimolo all'iniziativa politica.
Il Governo, del resto, si era già mosso per il tramite del Ministro della Sanità, Livia Turco, che aveva sollecitato il Consiglio Superiore di Sanità (viene da chiedersi perché sia stato interpellato tale organo e non piuttosto il Comitato Nazionale di Bioetica) a rispondere alla domanda se nel caso di Welby vi fosse o meno "accanimento terapeutico". Era ovvio che una risposta positiva del Consiglio, per quanto il parere richiesto non fosse vincolante, avrebbe avuto un peso grande. Il Ministro sperava così di ricucire lo strappo tra laici e cattolici (presente in seno alla sua stessa maggioranza): sulla critica all'accanimento terapeutico tutti infatti erano d'accordo. Forse, però, il Ministro non si era letto bene il codice deontologico medico, perché altrimenti avrebbe potuto prevedere la risposta, a larga maggioranza negativa, dell'interpellato Consiglio e peraltro tardiva, poiché segue di qualche giorno l'ordinanza del giudice e si appiattisce su di essa. L'art. 14 infatti afferma "che il medico deve astenersi dall'ostinazione in trattamenti, da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del paziente e/o un miglioramento della qualità della vita". Il respiratore nel caso di Welby non migliorava certo la qualità della sua vita, ma difficilmente poteva contestarsi che rappresentasse un beneficio per la sua salute perché un altro paziente, nelle medesime condizioni di Welby, avrebbe potuto desiderare di continuare a vivere attaccato al respiratore ed in quel caso nessuno avrebbe avuto il diritto di staccarglielo. Se ci fosse stato "accanimento" si sarebbe dovuto spegnere il respiratore sempre e non solo nel caso di Welby. La questione sollevata dal Ministro dimostrava dunque una certa astuzia politica, ma in ultima istanza è stata controproducente perché ha spostato l'attenzione dall'eutanasia all'accanimento terapeutico, quando il caso di specie poteva essere affrontato e risolto senza far riferimento né all'eutanasia, né all'accanimento terapeutico. Il ricorso presentato dai legali di Welby aveva un grosso merito: per la prima volta nell'intera vicenda si impostava la cosa nei suoi termini corretti; e cioè come diritto del ricorrente a sospendere le cure senza che questo gli procurasse sofferenza. Vediamo il passo centrale della richiesta: "accertato e dichiarato il diritto del ricorrente ad autodeterminarsi nella scelta delle terapie mediche invasive alle quali sottoporsi e, quindi, il diritto del medesimo ricorrente di manifestare il proprio consenso a taluni trattamenti ed il rifiuto ad altri; preso atto ed accertato, altresì, che il Signor Piergiorgio Welby ha espresso, e ribadisce con il presente atto, la propria libera, informata, consapevole ed incondizionata volontà a che sia immediatamente cessata l'attività sulla propria persona di sostentamento a mezzo di ventilatore artificiale mentre sia proseguita e praticata la terapia di sedazione terminale; sia ordinato al Dott. Giuseppe Casale ed alla Antea Associazione ONLUS, soggetti che hanno in cura il ricorrente, di procedere all'immediato distacco del ventilatore artificiale che assicura la respirazione assistita del Signor Welby, contestualmente somministrando al paziente terapie sedative che, in conformità con le migliori ed evolute pratiche e conoscenze medico-scientifiche, risultino idonee a prevenire e/o eliminare qualsiasi stato di sofferenza fisica e/o psichica del paziente stesso con modalità tali da rispettare, momento per momento, sia all'atto del distacco dal respiratore che successivamente, il massimo rispetto delle condizioni di dignità e di sopportabilità, del suo stato da parte del paziente; disporre, in ogni caso, tutte le misure ritenute più adeguate a dare concreta attuazione agli interessi e ai diritti esercitati dal ricorrente". Il ricorso esprimeva in termini molto chiari la fattispecie in questione, focalizzando tutta l'attenzione sul diritto del paziente al rifiuto del trattamento. Anche se nel ricorso (opera in gran parte dell'Avv. Prof. Francesco Di Giovanni) troviamo pure alcune lucidissime considerazioni riguardanti più in generale il tema della vita e della morte dell'uomo in un'epoca in cui "la possibilità di prolungare le funzioni vitali mediante l'ausilio di apparati esterni al corpo (così come quella di provocare il concepimento attraverso pratiche di fecondazione in vitro), rendono alquanto più evanescenti i confini che la natura sembrava assegnare all'esistenza della persona umana", tutto ciò non va a scapito della precisa individuazione dell'oggetto del ricorso che è presentato nei suoi precisi confini. Non si tratta dunque né di eutanasia, né di accanimento terapeutico, ma soltanto del fatto che nessun trattamento medico può essere compiuto o proseguito in difetto dell'esplicito consenso manifestato dall'interessato, dal momento che l'imposizione forzata di un trattamento che non può in alcun modo configurarsi come obbligatorio implica una violazione della garanzia costituzionale della libertà personale (art. 13 Cost.). "Il tema giuridicamente essenziale e rilevante, nel caso di specie, è e rimane quello delle prerogative dell'individuo riguardo al consenso o al rifiuto di qualsiasi terapia medica, sia essa inerente o non alla salvaguardia dell'integrità e della sopravvivenza della persona". Un'argomentazione ineccepibile, salvo forse per la richiesta formulata di staccare il respiratore somministrando "contestualmente" terapie sedative. Poteva il medico fare entrambe le cose assieme? Mi pare inevitabile che un'unica persona, nella fattispecie il Dottor Casale, non avrebbe potuto che fare una cosa prima e poi l'altra (anche se l'intervallo fra le due azioni sarebbe stato di pochi minuti). E su cosa fosse giusto fare prima o dopo ci sarebbe certo stato spazio per la discussione, tanto più che nello stesso ricorso si parla non solo di terapie intensive, ma di "terapia di sedazione terminale". Ma non è su questo che intendo qui insistere. Il ricorso poneva tuttavia - voglio ribadirlo - un punto fermo: la richiesta formulata riguardava la sospensione di un determinato trattamento terapeutico e poiché Welby era del tutto consapevole delle conseguenze cui andava incontro se la sua richiesta fosse stata accolta, il medico era tenuto a sospendere quel trattamento. Ad esprimersi sul ricorso interviene anzitutto (l'11 dicembre 2006) la Procura di Roma con un parere dei pubblici ministeri, Francesca Loy e Salvatore Vitello, di parziale accoglimento del ricorso presentato dal malato. Per il Pubblico Ministero, in sostanza, il ricorso andava accolto per quel che riguardava l'esistenza di un diritto del ricorrente a sospendere il trattamento di sostentamento a mezzo di ventilatore artificiale, inammissibile tuttavia nella parte in cui avrebbe obbligato il medico a diventare mero esecutore di scelte fatte dal suo paziente. Insomma, Welby aveva il diritto di sospendere il trattamento, ma il medico non aveva il dovere di non ripristinarlo qualora avesse ritenuto opportuno farlo: "... sotto il profilo dell'esistenza del diritto ad interrompere il trattamento terapeutico non voluto, con le modalità richieste, il ricorso è ammissibile e va accolto. Per quanto riguarda, invece, le possibilità di ordinare al medico di non ripristinare la terapia, il ricorso è inammissibile, perché trattasi di una scelta discrezionale affidata al medico". La Procura cerca, così, di trovare un difficile punto di incontro tra il diritto di autodeterminazione del paziente e la potestà di cura del medico: da un lato riafferma chiaramente il diritto del paziente ad interrompere il trattamento non più voluto, dall'altro non obbliga il medico a non ripristinarlo, perché una tale decisione rientra nell'ambito della sua discrezionalità. Rimettere la decisione alla discrezionalità del medico significa anzitutto che la prospettazione dell'intervento ripristinatore non può essere giustificato in termini di "automaticità", come afferma lo stesso Pubblico Ministero, ma è subordinato ad una scelta, appunto, discrezionale del medico. Ci si chiede: che cosa può allora autorizzare il medico a ripristinare il trattamento o invece a farlo desistere dal compire una tale azione?
Il medico - secondo la Procura - deve valutare "se sussista in concreto la necessità di salvare il paziente dal pericolo attuale di un grave danno alla persona e perciò agire anche in assenza o anche contro il consenso di questo". Se tuttavia si imposta la cosa in questi termini perde di per sé di rilievo la volontà del paziente e diventa decisiva la problematica del trattamento sanitario d'urgenza sul quale la decisione spetta al medico. Non vi sono limiti alla sua discrezionalità? Se tale trattamento potesse configurarsi come "accanimento terapeutico" il medico - seguendo il Codice deontologico della sua professione - sarebbe tenuto a non ripristinarlo, ma possiamo ritenere che nel caso in esame il ripristino di una terapia sospesa per volontà del paziente possa configurarsi come "accanimento terapeutico"? Poiché una tale decisione spetta al medico - tocca a lui "verificare se il trattamento richiesto si pone in contrasto con le regole del divieto di accanimento terapeutico" - è evidente che non sussiste per lui un obbligo di non ripristinare il trattamento: sarà lui a decidere di farlo o non farlo. E' tenuto a non farlo solo se quell'atto può configurarsi come accanimento terapeutico, ma è lui a decidere se qualificare o meno in tal modo quell'atto. Impostata in questi termini la questione, il Pubblico Ministero non può quindi che ritenere per quella parte inammissibile il ricorso: il medico è tenuto ad interrompere la terapia, resta però una sua scelta discrezionale se ripristinarla o meno. Un punto va comunque qui sottolineato: se il trattamento di respirazione artificiale, a cui Welby era sottoposto, difficilmente poteva di per sé configurarsi come accanimento terapeutico, il ripristino di un tale trattamento dopo la sua volontaria sospensione non poteva invece escludere l'ipotesi di un' "ostinazione" (e dunque di un "accanimento") dal quale il medico avrebbe dovuto astenersi. (A meno che - come subito vedremo - con quel trattamento non si intendesse tanto proseguire nella terapia di sostegno vitale, quanto piuttosto risparmiare al paziente inutili sofferenze). Resta da chiedersi se, al di là di quest'ipotesi, non ci siano altri vincoli cui può venir sottoposto il medico. Il Pubblico Ministero, in conclusione del suo intervento, pare individuarne un altro quando osserva che si tratta "di una scelta discrezionale tecnicamente vincolata, in merito all'utilità e alla necessità di ripristinare, in un momento successivo, la terapia, sulla base di quanto indicato nell'art. 37 del codice deontologico il quale prevede: "in caso di malattie a prognosi sicuramente infausta o pervenute alla fase terminale, il medico deve limitare la sua opera all'assistenza morale e alla terapia atta a risparmiare inutili sofferenze, fornendo al malato i trattamenti appropriati a tutela, per quanto possibile, della qualità di vita".
Questo passo, con cui si conclude il parere del Pubblico Ministero, può essere soggetto ad una duplice interpretazione. Per un verso la Procura inserendo un nuovo vincolo al potere discrezionale del medico suscita quasi l'impressione di volerlo dissuadere dalla sua intenzione di ripristinare un trattamento non voluto su un malato terminale: quand'anche un'azione di questo tipo non possa configurarsi come un accanimento terapeutico, nel caso di un malato terminale il medico non è comunque tenuto a utilizzare tutte le terapie di cui dispone, ma solo quelle atte a risparmiare al paziente inutili sofferenze. Per l'altro il medico curante poteva a sua volta vedere in questo passo una legittimazione delle sue intenzioni: egli poteva ripristinare il trattamento perché una morte per soffocamento avrebbe senza dubbio provocato sofferenze al suo paziente e poiché tra i compiti del medico c'è sempre anche quello di alleviare le sofferenze, non si sarebbe certo potuto impedire al medico di farlo anche in questa occasione. Ma se tutto ciò è vero, bisogna pure osservare che è proprio per questo che nel ricorso di Welby si chiede espressamente che un tale distacco avvenga sotto sedazione. Sulle modalità della sedazione si può certo discutere, ma non sul fatto che Welby avesse diritto ad una terapia di sedazione che gli impedisse di provare dolore per una morte da soffocamento. Ma se il problema che si poneva la Procura era quello di ammettere il possibile ripristino del respiratore non per via del rischio vita, ma per evitare sofferenze a Welby si può dire che si poteva raggiungere lo stesso risultato anche senza ripristinare l'uso del respiratore. Al di là di questo siamo proprio certi che sia corretta l'interpretazione data dalla Procura al ricorso di Welby?
Nel ricorso si chiede soltanto che sia ordinato al medico curante di procedere all'immediato distacco dal ventilatore garantendo al paziente una condizione in cui la sofferenza sia adeguatamente controllata. Non si chiede altresì di vietare al medico il ripristino di quella terapia, per ragioni connesse alla professionalità del medico. Poiché il ricorso non si esprime direttamente circa questa eventualità non si vede come il parere possa giungere alla conclusione che il ricorso sarebbe inammissibile per ciò che riguarda la possibilità di ordinare al medico di non ripristinare la terapia, dal momento che questo punto non è oggetto specifico del ricorso medesimo. Dunque, anche ammesso (ma non concesso) che sul ripristino del respiratore l'ultima parola spettasse al medico curante, il ricorso verteva sulla possibilità di staccarlo e su questo (e questo soltanto) doveva esprimersi il Pubblico Ministero. Quello che il medico avrebbe fatto dopo riguardava anzitutto lui stesso e la sua etica professionale. Il parere del Pubblico Ministero comunque aveva ritenuto per lo meno in parte ammissibile il ricorso. Ma si trattava solo di un parere, per quanto autorevole, acquisito dal Tribunale di Roma (Sezione I Civile), chiamato a decidere d'urgenza sull'ammissibilità del ricorso. Com'è noto il giudice monocratico designato, Angela Salvio, con un'ordinanza depositata in cancelleria il 16 dicembre 2006 ha dichiarato "l'inammissibilità del ricorso". Il giudice, certo, doveva sciogliere un difficile nodo, tanto più che la Procura nel suo parere era giunta ad una conclusione ambigua. Dovendo decidere non poteva che ritenere ammissibile o inammissibile il ricorso (o rigettarlo) motivando la sua decisione sulla base del diritto vigente (nonché tenendo conto della giurisprudenza più accreditata): quello che non avrebbe dovuto fare (e invece ha fatto) è affermare che la sua decisione si basava su un vuoto che il legislatore doveva colmare. E invece il giudice conclude la sua ordinanza con le seguenti parole: "Solo la determinazione politica e legislativa, facendosi carico di interpretare la accresciuta sensibilità sociale e culturale verso le problematiche relative alla cura di malati terminali, di dare risposte alla solitudine e alla disperazione dei malati di fronte alle richieste disattese, ai disagi degli operatori sanitari ed alle istanze di fare chiarezza nel definire concetti e comportamenti, può colmare il vuoto di disciplina, anche sulla base di solidi e condivisi presupposti scientifici che consentono di prevenire abusi e discriminazioni (allo stesso modo in cui intervenne il legislatore per definire la "morte cerebrale" nel 1993)". Ritornerò fra poco su quest'ultimo riferimento. Qui vorrei anzitutto sottolineare che con la sua ordinanza il giudice ha offerto un chiaro esempio di "non liquet". Accade spesso nel diritto che una situazione non sia disciplinata da una norma espressa. Il giudice che pur registri l'esistenza di una lacuna nell'ordinamento non può tuttavia esimersi dal decidere per questo una controversia - anzi è tenuto a farlo, come espressamente statuito dagli artt. 2 e 3 della legge n. 117 del 1988 - e lo deve fare secondo il diritto vigente, e ciò vuol dire utilizzando tutti quegli strumenti che il nostro ordinamento gli mette a disposizione per risolvere la controversia, e cioè avendo "riguardo alle disposizioni che regolano casi simili e materie analoghe" e, se il caso rimane ancora incerto, facendo ricorso ai "principi generali dell'ordinamento giuridico dello Stato" (art. 12, 2° co., disp. prel. codice civile). Ora, non vi è dubbio che alla fine il giudice abbia deciso, ma l'aspetto sconcertante è che il contenuto della sua decisione sia fondato non su una qualche interpretazione dei testi normativi esistenti bensì sulla esplicita ammissione che essi non esisterebbero. Per questo ho parlato di denegata giustizia: dal momento che sebbene il giudice si sia formalmente espresso in merito lo ha fatto motivando la sua decisione con l'argomentazione per cui il caso non sarebbe regolato dal diritto e "non suscettibile di essere riempito dall'intervento del giudice, nemmeno utilizzando i criteri interpretativi che consentono il ricorso all'analogia o ai principi generali dell'ordinamento".
Non deve quindi sorprendere se la stessa Procura di Roma (peraltro dopo aver fornito essa medesima un parere non esente da ambiguità) abbia, a sua volta, il 19 dicembre, impugnato l'ordinanza del giudice, rilevando la sua contraddittorietà: "dalla premessa (corretta) secondo cui nel nostro ordinamento esiste un divieto di accanimento terapeutico e un correlativo diritto di pretenderne la cessazione, perviene a una conclusione (del tutto erronea) per cui questo diritto non può essere tutelato a causa della mancata definizione, in sede normativa, delle sue modalità attuattive".
Che ci sia contraddizione nell'ordinanza è palese: non si può riconoscere l'esistenza di un diritto e poi affermare che tale diritto non può comunque essere tutelato. Ma il Pubblico Ministero cade nell'errore di ritenere che il diritto in questione sia quello connesso alla pretesa di porre fine ad un accanimento terapeutico, quando invece nel caso concreto si trattava specificamente del diritto che un paziente ha di rifiutare terapie non più volute. La contraddizione sta precisamente nel fatto che le conseguenze implicite nelle premesse fatte proprie dal giudice - il riconoscimento del diritto di autodeterminazione del paziente in merito alle cure - vengono poi negate nel dispositivo dell'ordinanza e questo è del tutto indipendente dal fatto che la ventilazione meccanica configuri o meno il profilo dell'accanimento terapeutico. Insomma, ancora una volta le argomentazioni del Pubblico Ministero erano tutt'altro che condivisibili, anche se nel merito egli aveva ragione a proporre reclamo. C'erano sicuramente tutti gli elementi per arrivare ad una pronuncia di merito che dopo il reclamo del Pubblico Ministero sarebbe dovuta essere emessa davanti ad un tribunale non più in sede monocratica, bensì in composizione collegiale. Ma Welby sorprendendo un po' tutti, ha deciso pochi giorni dopo di farla finita una volta per sempre, ponendo così anche fine alla sua vicenda personale, anche se resta ancora sub iudice il procedimento di archiviazione richiesto dalla procura per il medico che sotto sedazione ha interrotto il trattamento di ventilazione meccanica. Non resta quindi che analizzare più da vicino l'ordinanza del giudice. Il percorso argomentativo seguito dal giudice è infatti piuttosto sorprendente. Al giudice sono, ovviamente, ben noti i principi generali dell'ordinamento a cui poter fare riferimento, in particolare l'art. 32, 2° co. della Costituzione che considera fondamentale la libertà di cura (e giustifica l'imposizione di trattamenti sanitari solo in casi in cui non si può certo far rientrare quello di Welby), nonché la giurisprudenza della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione dalle quali emerge con chiarezza che la libertà di cura può spingersi sino al punto del rifiuto di trattamenti indispensabili a salvare la vita di un paziente. E' altresì consapevole del fatto che il principio di autodeterminazione del paziente rappresenti una "grande conquista delle società culturalmente evolute" e trovi oggi riconoscimento nella Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea e nella Convenzione Europea sui diritti dell'uomo e la biomedicina di Oviedo del 1997 (ratificata anche dal nostro ordinamento con la legge n. 145 del 2001) nonché, ad esempio, nel nostro codice di deontologia medica, e tuttavia un tale principio - secondo il giudice - "presenta aspetti problematici in termini di correttezza ed effettività rispetto al profilo della libera ed autonoma determinazione individuale sul rifiuto o la interruzione delle terapie salvavita nella fase terminale della vita umana". Una frase piuttosto ambigua (in astratto la libertà di autodeterminazione andrebbe bene, ma non in termini di concretezza ed effettività: sarei, insomma, libero di non farmi cavare un dente, anche se il dentista vorrebbe farlo, non però di non farmi amputare una gamba in cancrena perché ciò metterebbe a rischio la mia vita?), tanto più che essa viene posta a conclusione di un ragionamento, suffragato da molteplici fonti legislative e giurisprudenziali, dal quale risulta che la libertà del rifiuto di cure (anche salvavita) è un principio ormai inequivocabilmente affermato e riconosciuto dal nostro ordinamento. L'attenzione del giudice si sposta quasi inavvertitamente dal tema oggetto del ricorso (il rifiuto delle cure) al tema che invece nel ricorso (a differenza della lettera a Napolitano) neppure viene toccato: quello dell'eutanasia. Così il nodo fondamentale da sciogliere sembra ora diventare il "preciso obbligo giuridico di garanzia del medico di curare e mantenere in vita il paziente", non effettuando né favorendo trattamenti diretti a provocarne la morte. Lo stesso atto di staccare il respiratore non viene più visto dalla prospettiva del paziente che facendo ricorso contro il medico curante chiede che venga rispettato un suo diritto costituzionalmente garantito (quello cioè di non continuare ad essere sottoposto ad un determinato trattamento), ma dal punto di vista del medico che avrebbe comunque sempre l'obbligo di curare e mantenere in vita il suo paziente. Si giunge così alla paradossale conclusione che il paziente ha il diritto di chiedere la sospensione del trattamento, ma il medico ha il dovere di ripristinarlo poiché esisterebbe al riguardo un preciso obbligo di garanzia del medico, stante l'indisponibilità del bene vita previsto tanto dal codice civile (art. 5) quanto da quello penale (artt. 579 - 580). Anche qualora, per un momento, si volesse accettare questa conclusione, non ne conseguirebbe affatto come esito scontato quella che il giudice ne ha dedotto, vale a dire l'inammissibilità del ricorso. Una volta che il giudice ha sostenuto (a mio avviso erroneamente) di trovarsi di fronte a due situazioni giuridiche ugualmente tutelate dall'ordinamento, nella fattispecie il diritto di autodeterminarsi del paziente sancito dalla Costituzione e dall'altro il dovere del medico (e di chiunque altro) di mantenere in vita (di non aiutarlo a morire onde non incorrere nel divieto penale) il giudice avrebbe potuto o applicare direttamente la norma costituzionale (art. 32, 2° co.) che sul punto non lascia spazio ad equivoci (si sarebbe trattato di quella che per i giuristi tedeschi si chiama Drittwirkung e che perlomeno a partire dalla sentenza n. 122 del 1970 è anche riconosciuto dalla giurisprudenza della nostra Corte Costituzionale) con il rischio però di disapplicare alcune disposizioni di legge e dunque di esporsi al diritto di impugnazione oppure - scelta molto più equilibrata e meno problematica - sollevare la questione di legittimità costituzionale in merito a quegli articoli del codice civile e penale che riguardano l'indisponibilità del bene vita. E invece il giudice con la sua ordinanza ha in sostanza disapplicato una norma costituzionale risolvendo la controversia che gli era stata sottoposta sulla base di norme di rango legislativo che possono perlomeno essere ritenute confliggenti con il dettato costituzionale. Vorrei peraltro qui ribadire che non era necessario per il giudice aprire il discorso sull'"indisponibilità del bene vita". Egli doveva esprimersi sull'ammissibilità di un ricorso che mirava non a far sì che il medico aiutasse il suo paziente a morire, ma soltanto a sospendere una terapia non più voluta, del tutto indipendentemente dalle conseguenze che una tale sospensione avrebbe avuto. Spostando in modo quasi impercettibile l'attenzione dal rifiuto di cure del paziente al dovere del medico di non compiere un atto eutanasico il giudice compie un ragionamento del tutto sviante, rispetto all'oggetto sul quale era tenuto a pronunciarsi. Avendo imboccato una strada sbagliata egli cerca di correggersi introducendo un nuovo elemento: quello dell'accanimento terapeutico. Se si riuscisse a dimostrare che la condizione in cui versa Welby è configurabile come una condizione di "accanimento terapeutico", allora in quel caso non solo egli avrebbe il diritto di chiedere l'interruzione della respirazione artificiale, ma il medico avrebbe il dovere di farlo, addirittura indipendentemente dalla volontà del paziente. Questo ora spiega il riferimento nella parte (citata) conclusiva dell'ordinanza alla legge sulla morte cerebrale: una volta accertata la perdita irreversibile di tutte le funzioni dell'encefalo il medico deve staccare il respiratore, perché sarebbe "accanimento terapeutico" continuare a tenerlo acceso. Il discorso su quella legge (la n. 578 del 1993) sarebbe lungo e lo abbiamo già fatto in altre sedi (cfr. ora P. Becchi, Morti cerebrali =cadaveri? , in "Politica del diritto, XXXVIII, n. 3, 2007, pp 487-502.. Si potrebbe anzitutto osservare che il respiratore resta ancora acceso qualora s'intenda procedere al prelievo degli organi del paziente. E comunque l'esempio apportato potrebbe rovesciarsi contro l'argomentazione del giudice: i trapianti venivano effettuati anche prima dell'approvazione di quella legge sulla morte cerebrale e nessun giudice ha non per questo avanzato l'idea che essi avvenissero in un vuoto legislativo. L'esempio tuttavia viene utilizzato dal giudice per dimostrare che come c'è voluta una legge che autorizzasse il distacco del respiratore da un morto cerebrale, così ci vorrebbe anche una legge per autorizzare il distacco del respiratore in casi come quello di Welby. Anche in questo modo tuttavia l'esempio è meno convincente di quanto sembra dal momento che il divieto di accanimento terapeutico configura una fattispecie diversa rispetto alla fattispecie in questione. Per la semplice ragione - come già si è visto - che il medico è obbligato a sospendere un trattamento che si configura come accanimento terapeutico, ma difficilmente la condizione di Welby potrebbe essere così caratterizzata, dal momento che un'altra persona al suo posto forse avrebbe voluto continuare a vivere e nessuno avrebbe dovuto impedirgli di farlo. Si noti, qui con "accanimento terapeutico" non ci si riferisce all'eventualità del ripristino del respiratore, come sembrava dal parere del pubblico Ministero, ma alle condizioni di Welby che chiedeva di essere staccato dalla macchina. Insomma, al di là del responso negativo del Consiglio Superiore di Sanità in merito all' "accanimento terapeutico", il giudice si era andato ad infilare in un vicolo cieco. Non vi è dubbio che sarebbe alquanto difficile sostenere che il trattamento di Welby andasse interrotto, perché ci trovavamo di fronte ad un caso di mero accanimento terapeutico. E poiché dall'argomentazione del giudice sembrerebbe (del tutto erroneamente) di dover subordinare il diritto di rifiutare le cure all'esistenza dell'accanimento terapeutico, ecco che egli può giungere a dichiarare inammissibile il ricorso. Questa conclusione tuttavia si basa sulla subordinazione di una cosa (il rifiuto delle cure) all'altra (l'accanimento terapeutico) quando invece una cosa è indipendente dall'altra: il rifiuto delle cure va cioè comunque rispettato. Scivolando sul tema dell'eutanasia e deragliando su quello dell' "accanimento terapeutico" il giudice può così giungere alla contraddittoria conclusione che "nel caso in esame, il diritto del ricorrente di richiedere la interruzione della respirazione assistita e distacco del respiratore artificiale, previa somministrazione della sedazione terminale, deve ritenersi sussistente alla stregua delle osservazioni di cui sopra, ma trattasi di un diritto non concretamente tutelato dall'ordinamento; infatti non può parlarsi di tutela se poi quanto richiesto dal ricorrente deve essere sempre rimesso alla totale discrezionalità di qualsiasi medico al quale la richiesta venga fatta...". Welby quindi in linea di principio ha diritto a pretendere la sospensione del trattamento, ma poiché l'ordinamento non prevede "la possibilità di realizzabilità coattiva della pretesa", quel diritto è destinato a rimanere inefficace.
Per la verità che il diritto resti inefficace stante la discrezionalità del medico a cui sarebbe soggetta la richiesta del ricorrente è argomento meno certo di quanto il giudice non sembri ritenere. Il fatto che la richiesta non sia stata accolta dal medico curante non impedisce di pensare - come del resto di fatto poi si è anche verificato - che un altro medico nelle medesime condizioni non sia disposto ad esaudirla. Un diritto può essere concretamente tutelato dall'ordinamento anche quando la pretesa da esso implicata non è necessariamente coattiva per tutti i soggetti tenuti a soddisfarla. Il diritto all'interruzione della gravidanza è concretamente tutelato dal nostro ordinamento anche se esistono medici obiettori che si rifiutano di praticarla. Ma di quale diritto si trattava nel caso di Welby?
Il ricorso muoveva molto rigorosamente e correttamente dalla decisione del ricorrente di rifiutare un determinato trattamento (e di richiederne uno diverso: la sedazione) mentre l'argomentazione del giudice va a parare prima nell'eutanasia e poi nell'accanimento terapeutico. Sull'eutanasia ci siano già soffermati, sull'accanimento terapeutico qui va ulteriormente ribadito che una tale condizione è molto meno soggetta alla discrezionalità del medico di quanto il giudice mostri di ritenere. Anche in assenza di una normativa giuridica ad hoc esiste comunque quella - che abbiamo già citata - contenuta nel codice deontologico medico e sulla base di essa ben difficilmente si sarebbe potuto concludere che nel caso di Welby si presentava una situazione di accanimento terapeutico. Del resto questa è stata anche la conclusione dell'Ordine dei Medici interpellato al riguardo dal Ministro della Salute. Molto correttamente il ricorso non usa tuttavia mai l'espressione "accanimento terapeutico". Il diritto azionato in quella sede e di cui si chiedeva la protezione in via d'urgenza era soltanto quello del rifiuto di un trattamento medico, il quale non essendo più espressamente voluto dal paziente, veniva subito da questi coercitivamente. E su questo - e questo soltanto - il giudice era tenuto ad esprimersi interpretando le leggi esistenti alla luce del dettato costituzionale e appoggiandosi altresì su una giurisprudenza ormai consolidata. Il giudice aveva dunque tutti gli elementi per dichiarare ammissibile il ricorso e quindi ordinare al medico di procedere all'immediato distacco del ventilatore artificiale con modalità da non procurare sofferenze al paziente. Quello che il medico dopo avrebbe deciso di fare (ripristinare l'uso del respiratore) non era in sé oggetto del ricorso e avrebbe aperto una nuova questione concernente la liceità o meno del comportamento messo in atto dal medico contro la volontà del paziente. Intanto ciò su cui il giudice doveva esprimersi era la pretesa di Welby a che la sua persona fosse staccata dal respiratore e questa pretesa è già tutelata dal nostro ordinamento e andava garantita, tenendola distinta tanto dalla richiesta eutanasia al momento penalmente perseguibile quanto dal problema dell'accanimento terapeutico che è ininfluente nel caso in esame. Il giudice in fondo si è lasciato sfuggire una grossa chance: quella di disinnescare la miccia dell'eutanasia, separando nettamente questo lacerante problema da quello intorno al quale invece vi è un ampio consenso della libertà di cura.

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